"Videodrome" (1983) di David Cronenberg
- alessandrogasparin1
- 26 feb 2024
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 29 feb 2024
Ci sono eventi nella vita che segnano un prima e un dopo, una netta cesura, una linea di demarcazione ben definita. Il varcare quella soglia in ambito cinematografico fu per me la visione di "Videodrome" di David Cronenberg (1983). Un sabato pomeriggio ai tempi del liceo, quando ci si ritrovava a casa tra amici per recuperare qualche grande titolo oscuro e (più o meno) dimenticato. Il film in oggetto sconvolse letteralmente le mie cornee, essendo il primo approccio ad un cineasta che ha fatto della stimolazione del nervo ottico un cavallo di battaglia.

La trama vede protagonista Max Renn (James Woods), direttore del canale di una TV privata focalizzata su programmi pornografici. Un giorno Max viene a conoscenza, grazie al suo collaboratore Harlan (Peter Dvorsky), di un programma intitolato “Videodrome”. La curiosità e la voglia di fornire al suo pubblico contenuti inediti e scioccanti spingeranno Max dentro un vortice di eventi allucinanti. Inoltre, la conoscenza del misterioso teorico dei media Brian O’Blivion (Jack Creley) e della conduttrice radiofonica Nicki Brand (Deborah Harry) lo condurranno in un inquietante stato ipnotico dove realtà e fiction da tubo catodico si fondono.

Considero “Videodrome” la più significativa, totale ed essenziale prova di David Cronenberg dietro la macchina da presa. In quest’opera sono presenti tutti gli elementi che hanno reso unico il suo cinema antecedente e successivo, ovvero l’accostamento tra orrore e eros (“Il demone sotto la pelle”, “Rabid”), la sessualità morbosa che coinvolge uomo e tecnologia (“Crash”, “eXistenZ”), e infine, ma onnipresente, la centralità di mente e corpo umani compenetrati e soggetti ad ineluttabili mutazioni (“Brood”, “La mosca”, “Inseparabili”, “Il Pasto Nudo”, “Crimes of the future”).
Il lungometraggio in oggetto è da un lato decisamente figlio degli anni ottanta, pregni del dominio televisivo sulla coscienza umana, ma d’altra parte uno sguardo lungimirante sugli effetti che la bulimia di immagini e dati ha sulla percezione della realtà lo rende tremendamente attuale. Un lavoro nel quale è ardua impresa trovare difetti, denso di ritmo incalzante e di una regia innovativa e implacabile che accompagna chi guarda in un incubo ad occhi aperti. A rendere il tutto ancora più memorabile, tanto gli effetti visivi (Rick Baker) e la fotografia (Mark Irwin) quanto l’immenso contributo di un cast di altissimo livello.
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