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Captain Beefheart - "The Spotlight Kid" (1972)

Si tiene il ritmo insieme e parte la chitarra per prima. Entra subito il basso, pieno e deciso. La batteria va per ultima, giusto per capire come non entrare fuori tempo o in levare, ma è un buon proposito che puntualmente va a farsi benedire. Perchè per I’m gonna booglarize you baby non vale mai il detto “buona la prima”, specie quando non la si suona per mesi. Ma come soleva dire un comune amico: “l’importante è che ci abbiamo messo la buona volontà”. Per noi pischelli cresciuti in riva al Mar Jonio e poi sballottati da un parte all’altra dello stivale e del continente, questa track è stata un cavallo di battaglia da ripetere a ogni rimpatriata, una su tutte nell’estate del 2016 sul piccolo palco del Django nel cuore de La Valletta durante un’improvvisata jam session di fronte ad un discreto e incuriosito pubblico.


Don Van Vliet, nato a Glendale in California, è stato probabilmente uno dei musicisti più eccentrici e fuori dagli schemi che la musica del XX secolo abbia conosciuto. Menzionato come un dittatore da chi ha suonato con lui, da buon tiranno che si rispetti ha avuto l’ardire di creare un mondo a sua immagine e somiglianza (come di li a poco avrebbero fatto Daevid Allen con i Gong e Christian Vander con i Magma). Prendendo ispirazione dalle linee guida del blues, del jazz e del surrealismo, ha macellato questi per dare vita ad uno trito musicale iconoclasta che non può prescindere dalla sua voce tanto bizzarra quanto magnifica. Ruvida al punto giusto, la sua ugola è stata un faro guida per chi negli anni a seguire ha scelto di ripercorrerne le gesta dalla California all’Australia (Tom Waits e Nick Cave). Il soprannome di Captain Beefheart gli fu donato dall’amico Frank Zappa, così come lui a sua volta finì per attribuire ai membri della sua Magic Band nomignoli a metà tra l’acido e il mitologico. La Band nacque ufficialmente nel 1964, facendosi conoscere nel contesto freak californiano prima di dare alla luce il primo eclatante album Safe as Milk (1967) e subito dopo Strictly Personal (1968), quest’ultimo ripudiato successivamente da Van Vliet per le soluzioni utilizzate in fase di mixing. Sempre nel 1967 ebbero luogo le sessions che portarono a quel brodo primordiale e frizzante meglio conosciuto come Mirror Man, stampato nel 1971. I nostri eroi si presero dunque la briga di scolpire due monoliti nella storia del rock, ovvero l’opera dadaista di Trout Mask Replica (1969) e il vibrante e fantasioso show di Lick My Decals Off (1970), ma lo iato artistico e umano tra Van Vliet e Zappa nel 1971 segnò una nuova e controversa direzione. Le attese erano decisamente alte nel 1972, anno in cui venne dato alle stampe The Spoltight Kid, che come preannunciato divise la critica, gli appassionati e gli stessi membri della Band. Nonostante si respirasse l’atmosfera delle radici blues tanto care a Don, molti pensarono che il Capitano avesse venduto la sua anima per scivolare verso una svolta commerciale. La Magic Band, stavolta neanche nominata, aveva all’attivo Drumbo (John French) alla batteria e percussioni in coabitazione con Ed Marimba/Ted Cactus (Art Tripp) attivo anche su marimba, piano e harpsichord, quindi Zoot Horn Rollo (Bill Harkleroad) alla chitarra e Rockette Morton (Mark Boston) al basso. È curioso che loro, cittadini di Beefheartlandia avessero apostrofato il lavoro svolto come noioso da suonare e odioso da riascoltare per via della sua semplicità.

Eppure questa vituperata accessibilità, ascoltata oggi, suona che è una meraviglia. A sferrare il primo attacco è I’m gonna booglarize you baby con le due chitarre raggiunte presto dall’implacabile entrata del basso che da qui sarà onnipresente nel brano e in tutto il disco, conferendo un sound caldo e pastoso lontano dalla produzione immediatamente precedente. Il Capitano ruggisce elegantemente mentre il Drumbo trascina tutti in una danza degli ossessi, la stessa assurda danza da ammirare nella performance live al Beat Club scandita dalle mosse di Don e dal batterista con in testa un “intimo copricapo” (vedere per credere). In tutto questo marasma viene raccontata la storia di una simpatica coppietta composta da Vital Willy e Weeping Milly, che dopo aver vagato in auto durante la notte alla ricerca (con scarsi risultati) di un posticino appartato finiscono a casa di lei. Si prosegue con White Jam, ballad dalla voce inaspettatamente dolce, quasi un falsetto, e accompagnata dell’armonica, e Blabber 'N Smoke, canzone d’amore per voce, chitarra e marimba. Quest’ultima, scritta a due mani da Don e dalla sua compagna Jan, è un piccolo omaggio pieno di ironia e autoironia, dove il nostro viene descritto con affetto come un fumatore logorroico che considera l’amore un scherzo. Dopo due momenti leggeri si torna far bal- lare i timpani con When It Blows Its Stacks, tosta e rockeggiante con la chitarra che fa da leader dall’inizio alla fine, la batteria che plana leggera e marcata a seconda del mood cangiante del pezzo e ovviamente Beefheart che ha vita facile ululando come farebbe un Howlin Wolf di fronte alla sua Luna. Il Lato A si chiude con un omaggio letterario in forma di jam strumentale dove ancora la marimba e la chitarra guidano le creature che scorgono Alice che si aggira nel “Paese delle Baggianate”. Alice in Blunderland, dall’omonima opera di satira politica di John Kendrick Bangs del 1907, prepara il tappeto rosso alla title track che apre il Lato B, The Spotlight Kid. Sembra di essere di fronte ad una poesia recitata, storia che inizia con una mamma che rivela alla sua primogenita che sarà ricordata come la Ragazza dei Riflettori, ma dopo i primi quattro versi riparte la stramba orchestra con il suo incedere scanzonato e inquietante. Tutti hanno qui l’occasione per mettersi sotto il riflettore, la voce narrante, la marimba che si insinua ovunque, il basso tenebroso e la chitarra in evidenza. Da questo momento in poi la Band imbocca un sentiero che, scendendo negli inferi del blues duro e puro, porta dritto alla conclusione. Tanta armonica e chitarra slide in Click Clack, con la batteria che sembra voler imitare un treno che incessante viaggia sulla ferrovia di chissà quale bislacco deserto, e Grow Fins. Mentre There Ain't No Santa Claus on the Evenin' Stage è una dichiarazione di amore incondizionato a Mississippi Fred McDowell, la chiusura porta il nome di Glider, un blues-rock che almeno apparentemente illumina l’animo blu del Capitano. Lui è pronto a decollare con il suo aliante e volare verso il Sole, per non scendere mai più a terra.


Si tratta, come dicevo sopra, di un album di facile ascolto paragonato ai suoi immediati predecessori. Nonostante questa caratteristica che balza subito alle orecchie, resta un'opera affascinante che segna una ricerca sonora innovativa per la Band e che colpisce con delle strofe fuori di testa cantate e recitate in modo originale dal nostro Capitano. Un crocevia nella produzione della Magic Band, che continuerà in questa direzione nello stesso 1972 con il successivo Clear Spot, altro album che ascoltato oggi può far pensare tutto tranne che uno come Don Van Vliet abbia venduto la sua anima.









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